“Una folla di persone che riempie le strade delle città, lancia ai liberatori baci, fiori, esulta. Questa dovrebbe essere l’immagine della fine della guerra. Ma non della fine della Shoà. Basta mettere vicine queste due parole per capire quanto la loro unione sia priva di senso.”
Che la fine della seconda guerra mondiale sia un momento di gioia è un pensiero tutto sommato indiscutibile, eppure nessun ebreo in Polonia all’indomani della fine di quella guerra aveva nulla da festeggiare. Del resto prima di allora in Polonia c’erano più o meno tre milioni e mezzo di ebrei, decine di partiti politici ebraici, nonché scuole di pensiero, correnti di letteratura, di poesia, di cinema. Varsavia era il cuore della cultura ebraica dell’est Europa, soltanto a New York c’erano più ebrei che a Varsavia e, al di là dei centri urbani naturalmente popolati, c’erano migliaia di città grandi, piccole e minuscole dove quei milioni di persone abitavano: un mondo spazzato via praticamente del tutto dalla guerra.
Dal 1945 la Polonia, per ciascun ebreo sopravvissuto, era un cimitero.
“Soltanto in rare testimonianze di ebrei compare la gioia. La fine della guerra significò, paradossalmente, trovarsi a fare i conti con lo sterminio. Comprenderne la portata“
Nel suo ultimo libro “Non una fine, non un inizio” Anna Bikont racconta che cosa decisero di fare quei pochi ebrei rimasti, dato che non era loro possibile, così come lo era invece per chi ebreo non era, tornare alla vita di prima.
“Ho cercato almeno un esempio, così come è successo a milioni di persone, di qualcuno che fosse tornato alla vita di prima della guerra, alla sua famiglia, alla sua casa, al suo lavoro. Non l’ho trovato. Per ciascuno dei sopravvissuti, per quanto disperato, sconvolto, ammutolito, la fine della guerra significò ripensare e ricostruire la vita da capo.”
Questo è il grimaldello della sua ricerca. E gli ebrei sopravvissuti non avevano una casa dove tornare perché, là dove ancora in piedi, le loro case erano state occupate, magari dai vecchi vicini di casa; si incontrano spesso testimonianze dove i polacchi erano quasi sicuri che di ebrei non ne fossero più rimasti e, allora, tanto valeva prendere loro tutto. Gli ebrei sopravvissuti non avevano più parenti perché erano stati (praticamente sempre) ammazzati, spesso persino davanti ai loro occhi e quindi là dove mancavano gli affetti c’era invece ben radicato il dolore della memoria. Non avevano neanche più un lavoro, né un paese, una città, una rete di relazioni.
Dopo la guerra di solito si contano i morti, gli ebrei contavano i sopravvissuti.
E allora che cosa decisero di fare questi ebrei sopravvissuti, si chiede Anna Bikont in 330 pagine monumentali e dolorosissime.
“Un ragazzino le apre la porta, avrà dieci anni. Chiede chi abita in casa, lui le risponde “Noi”. Aggiunge subito che abitano lì da prima della guerra. La donna ha ancora addosso la casacca a righe, è venuta direttamente da Auschwitz, rimane in piedi, davanti alla porta, finché il ragazzino dice:
-Pensavamo che era morta
-Sono viva
-Peccato”
Controllo la bibliografia, questo è il quinto volume di un progetto coerente e meticoloso, una Ricerca del tempo perduto degli ebrei polacchi e a contare gli anni di ricerca direi che è evidentemente il progetto di una vita.
In particolare questo mi sembra che sia il suo libro più bello, appena finito mi sono commossa, emozionata e come riempita di una densa e corposa riconoscenza. Mentre lo leggevo ho raccontato a più persone le biografie di cui parla, ho seguito le tracce di queste persone, sono andata a cercare le loro immagini perché li volevo vedere, le interviste sul sito della USC Shoah Foundation, perché li volevo sentire e ho poi cercato altri libri, articoli (stupendo il racconto “Chance and Order” di Stanisław Lem dal New Yorker del 30.01.1984). I dettagli delle storie che lei racconta mi hanno confermato grandi riconoscenze (Maria Janion), serrate e incistite antipatie (Gustav Herling Grudzinski), commozioni e dolcezze che provavo ma poi non sapevo nemmeno bene perché (Stanisław Lem, sempre lui) e mi hanno insegnato molte cose che proprio non conoscevo (troppe, da chiudere in parentesi).
Ma che “questo è il suo più bello” me lo dico ogni volta che leggo un suo libro, perché Anna Bikont riesce a farsi domande semplici, quasi ovvie, che però diventano quel grimaldello di comprensione che apre le porte dentro la testa e a ogni volume, a ogni ricerca, aggiunge una chiave al portachiavi di cosa è successo e quindi chi erano, chi sono, chi sono stati gli ebrei polacchi. Altro che Proust!
Questo libro è diviso in quattro capitoli, che sono le quattro azioni possibili: Rimanere – Partire – Fare i conti e Ricordare, quasi 70 sono le pagine fitte fitte di bibliografia, nomi e note, quasi cinquanta le interviste citate, gli anni di ricerca che stanno dietro a un volume simile, invece, be’, difficile farne il conto.
Rimanere, perché qualcuno deve pur fare la guardia alle ceneri, alla memoria, oppure rimanere per costruire da zero un paese che sarà nuovo, o per far rinascere quel mondo proprio dalle ceneri e non darla vinta a chi ha cercato di cancellarlo. Oppur partire, per rinascere altrove, magari in America, il paese delle possibilità, o in Italia, al sole del paese dei limoni, oppure in Israele, perché Israele esiste, sta per esistere, e allora basta vivere nel pericolo della minoranza, basta essere riconosciuti come quelli che non appartengono, basta sottostare alle regole di altri, che non ci vogliono. Peraltro in Polonia nei primissimi anni del dopoguerra sono stati ammazzati più di un migliaio di ebrei sopravvissuti, perché la guerra era finita, sì, ma non l’esperienza della violenza, quella no. Gli ebrei venivano cercati sui treni e lanciati fuori, mentre il treno correva, sono stati attaccati asili di bambini orfani, scuole dove si erano radunati ebrei sopravvissuti, perché fosse chiaro che lì, gli ebrei, non ce li volevano. A Kielce, a Cracovia, a Zakopane, per citare i casi dei pogrom più noti, ma si farebbe forse prima a nominare i posti dove non ci sono stati casi simili. E allora, se anche lasciare tutto e partire faceva paura, di fronte alla violenza uno cambia idea in fretta.
Oppure no, oppure c’è chi comunque sia rimane, come Jerzy Cyns, che aveva cinque anni quando il ghetto di Cracovia fu liquidato e finì prima al campo di Płaszów, poi a Auschwitz, a Gross-Rosen e poi ancora a Auschwitz, dove il numero gli fu tatuato sul braccio per la terza volta, perché le prime due non era venuto bene. Non ricorda molto però del periodo del campo perché fu usato come cavia per gli esperimenti, ricorda solo che gli facevano delle iniezioni e perdeva conoscenza. Dopo la liberazione finì in un orfanotrofio per bambini ebrei a Cracovia, poi a Rabka, un altro orfanotrofio, ma per bambini malati. Un ospedale. Per un qualche miracolo della storia anche i suoi genitori erano sopravvissuti, la madre a Ravensbrück e a Buchenwald, il padre a Mauthausen. Jerzy era molto cagionevole di salute e per questo, nell’estate del ’47, i suoi genitori lo portarono di nuovo all’ospedale di Rabka, con loro andarono anche gli zii e il loro bambino, nato da poco.
Furono uccisi tutti il 9 agosto, per mano di una banda di ex partigiani nazionalisti che irruppero nella loro stanza. La zia fu uccisa insieme al figlio, che teneva in braccio, lo zio nella stanza, la mamma di Jerzy invece l’ammazzarono sparandole alle spalle, mentre cercava di scappare dalla finestra, probabilmente perché voleva che la seguissero, che le corressero dietro, che lasciassero la stanza dove c’era suo figlio, nascosto sotto il letto, che sopravvisse.
Nei capitoli Ricordare, Bikont racconta la storia di Józef Wulf, una figura gigantesca della storiografia ebraica, un uomo che ha dedicato ogni giorno della sua vita a ricordare, catalogare, scrivere quello che invece proprio in quegli anni si cercava di dimenticare, di cancellare, di non sapere. Finché poco prima di suicidarsi, nel 1974, dopo anni che ormai vive in Germania, scrive al figlio una lettera dove esprime la sua definitiva delusione: non riesce più a vivere nello stesso mondo dove quei criminali girano in libertà, abitano le loro casette e coltivano i fiori. Del resto quello stesso figlio, quando nei primi anni del dopoguerra ancora abitavano a Cracovia smise di essere picchiato e malmenato dai compagni di scuola soltanto dopo aver cambiato il suo nome, Dawid, con un bel Tadeusz polacco.
In questo sussultare continuo di violenza, di persone incontrate, perdute, di vite che sono un balenare in tempesta e paesi da raggiungere, o da dimenticare, Bikont ci accompagna, ci racconta, e grazie al cielo lo fa descrivendo con il suo sguardo che è un distillato di umanità, una sorta di empatica bellissima gentilezza che funziona come un antidoto alle continue clamorose ingiustizie della storia e illumina di umanità un contesto che di suo sarebbe solo molto buio.
Una famiglia si nasconde, ma tra di loro c’è una bambina piccola che piange, allora la mamma pensa di darla ai vicini di casa, lo fa per salvare lei e anche gli altri e lo fa perché si fida, solo che poi nessuno le dirà come sta la bambina, che fa, le notizie si diraderanno, suoneranno di bugia. La verità è che quei vicini l’hanno subito venduta ai tedeschi e la bambina è morta, ma del resto anche la madre muore. Ma questa è la sorte di chi ha fatto davvero la Storia, anche se è una storia non scritta, perché come sono andate davvero le cose a chi è stato ammazzato non lo sappiamo, almeno non possiamo saperlo davvero e infatti la storia della mamma e della bimba è un fatto collaterale, lo si racconta, lo si ricorda, ma sono pedine perse.
Anna Bikont invece ne scrive, ne parla con la sorella di quella mamma, che era con loro, e invece è sopravvissuta e insieme al figlio. Le dice “Anche a me avevano consigliato di dare via mio figlio, ma io dissi: Quello che succede a me, succede anche a lui. Del resto lui mi ha aiutato a sopravvivere e io ho aiutato lui (…). Mio figlio era un bambino molto bravo, sapeva che non doveva parlare a voce alta, non doveva piangere, che doveva stare tranquillo”. Molto forte la memoria della mamma, tanto che quel bambino sembra di vederlo, di sentirlo tranquillo tra le braccia, e poi arriva la voce di Bikont: “Peraltro questa è una caratteristica ben evidente in Roald anche oggi. Dopo tanti anni, è ancora un uomo tranquillo, gentile, affettuoso, dalla voce tranquilla, gentile, affettuosa.”
Il Roald bambino di cui parla e che vediamo nitidamente è il Roald adulto che Bikont ha incontrato negli Stati Uniti molti anni dopo che erano partiti dalla Polonia: Roald Hoffman, Premio Nobel per la chimica nel 1981, uno degli eroi di cui parla.
Eroe, che brutta parola, direbbe Marek Edelman, gli eroi sono quelli finiti nelle camere a gas, non chi ce l’ha fatta, ma come altro definire chi è riuscito a sopravvivere allo sterminio, rialzarsi, inventarsi una vita nuova e viverla. Che poi sia riuscito a emigrare e sia finito a fare il parrucchiere a Haifa, o abbia invece preferito rimanere in Polonia e magari abbia cambiato nome e sia diventato un buon cristiano, o un buon comunista, o abbia vinto un Nobel, poco cambia, eroi rimangono.
E tanto hanno di eroismo le loro biografie che mentre leggevo di loro mi chiedevo se non fossero storie della Marvel in prosa. Mi sono immaginata più volte uno Stan Lee in miniatura seduto sul cassettone di camera mia che annuiva in silenzio mentre seguivo le loro avventure, come a dire, “no, io non ho inventato granché”.
Una di queste è Irena Gelblum, c’è un libro che ho sulla scrivania, e mi aspetta, si chiama “Le tre vite di Irena Gelblum”, ma il titolo è indicativo, perché le vite di Gelblum sono forse cinque, sei. Un po’ come se avesse deciso di provarle tutte e erano vite che indossava come abiti, presi da un guardaroba, magari neanche suo. Del resto lo stesso Edelman, che mi piace tanto citare perché ha detto sempre e solo cose molto intelligenti, non solo la stimava, ma ogni volta che ne parlava si accendeva con una luce di deferenza di fronte al coraggio, al genio, alla forza sfrontata di questa donna tanto che “con la sua vita durante e dopo la guerra si potrebbe scrivere un romanzo d’avventura”, diceva. E come dargli torto.
Nasce a Varsavia in una famiglia di ebrei ricchi nel 1923, o forse nel ‘25, nel ’31. No, quando non si sa con esattezza, perché le sue date di nascita si mescolano, così come anche i suoi nomi si mescoleranno, Irena Weinberg, o Waniewicz, Gelblum, Conti, o Conti di Mauro, quando vivrà una delle sue vite da italiana. Durante la guerra vive fuori dal ghetto, cammina sicura per le strade e non ha paura dei tedeschi, ha un ruolo centrale nella resistenza ebraica di Varsavia, fa circolare armi, informazioni, oggetti. Dopo la guerra sarà una delle menti dei Vendicatori (gli Avengers di Stan Lee?) insieme a Abba Kovno, e nel silenzio della mia cameretta quando penso a loro due si alza la voce di Daniel Kahn in un coro di “Six Million Germans!” Pure le pareti mi cantano dei loro progetti di vendetta. Che però, per fortuna, non avranno successo e allora lei da Israele ritorna in Polonia e cambia pelle. Cambia nome, cambia religione, cambia identità e vive di nuovo, da zero, con una di quelle vite che indossa come un abito, come un’occasione.
Peccato che Stan Lee non le abbia dedicato un personaggio, ma per fortuna Anna Bikont ce ne parla.
ANNA BIKONT, Non una fine, non un inizio. Le sorti postbelliche degli ebrei polacchi, Wydawnictwo Czarne, 2025
Irene Salvatori

Irene Salvatori è nata a Forte dei Marmi (LU) nel 1978, ha studiato a Cracovia e vissuto a Berlino, si è laureata a Pisa in Storia Contemporanea, ma traduce letteratura dal polacco e dal tedesco, oltre a scrivere poesie.










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