ANNA BIKONT ALLA RICERCA DEGLI EBREI PERDUTI (di Irene Salvatori)

“Una folla di persone che riempie le strade delle città, lancia ai liberatori baci, fiori, esulta. Questa dovrebbe essere l’immagine della fine della guerra. Ma non della fine della Shoà. Basta mettere vicine queste due parole per capire quanto la loro unione sia priva di senso.”

Che la fine della seconda guerra mondiale sia un momento di gioia è un pensiero tutto sommato indiscutibile, eppure nessun ebreo in Polonia all’indomani della fine di quella guerra aveva nulla da festeggiare. Del resto prima di allora in Polonia c’erano più o meno tre milioni e mezzo di ebrei, decine di partiti politici ebraici, nonché scuole di pensiero, correnti di letteratura, di poesia, di cinema. Varsavia era il cuore della cultura ebraica dell’est Europa, soltanto a New York c’erano più ebrei che a Varsavia e, al di là dei centri urbani naturalmente popolati, c’erano migliaia di città grandi, piccole e minuscole dove quei milioni di persone abitavano: un mondo spazzato via praticamente del tutto dalla guerra.

Dal 1945 la Polonia, per ciascun ebreo sopravvissuto, era un cimitero.

“Soltanto in rare testimonianze di ebrei compare la gioia. La fine della guerra significò, paradossalmente, trovarsi a fare i conti con lo sterminio. Comprenderne la portata“

Nel suo ultimo libro “Non una fine, non un inizio” Anna Bikont racconta che cosa decisero di fare quei pochi ebrei rimasti, dato che non era loro possibile, così come lo era invece per chi ebreo non era, tornare alla vita di prima. 

 “Ho cercato almeno un esempio, così come è successo a milioni di persone, di qualcuno che fosse tornato alla vita di prima della guerra, alla sua famiglia, alla sua casa, al suo lavoro. Non l’ho trovato. Per ciascuno dei sopravvissuti, per quanto disperato, sconvolto, ammutolito, la fine della guerra significò ripensare e ricostruire la vita da capo.” 

Questo è il grimaldello della sua ricerca. E gli ebrei sopravvissuti non avevano una casa dove tornare perché, là dove ancora in piedi, le loro case erano state occupate, magari dai vecchi vicini di casa; si incontrano spesso testimonianze dove i polacchi erano quasi sicuri che di ebrei non ne fossero più rimasti e, allora, tanto valeva prendere loro tutto. Gli ebrei sopravvissuti non avevano più parenti perché erano stati (praticamente sempre) ammazzati, spesso persino davanti ai loro occhi e quindi là dove mancavano gli affetti c’era invece ben radicato il dolore della memoria. Non avevano neanche più un lavoro, né un paese, una città, una rete di relazioni. 

Dopo la guerra di solito si contano i morti, gli ebrei contavano i sopravvissuti.

E allora che cosa decisero di fare questi ebrei sopravvissuti, si chiede Anna Bikont in 330 pagine monumentali e dolorosissime. 

“Un ragazzino le apre la porta, avrà dieci anni. Chiede chi abita in casa, lui le risponde “Noi”. Aggiunge subito che abitano lì da prima della guerra. La donna ha ancora addosso la casacca a righe, è venuta direttamente da Auschwitz, rimane in piedi, davanti alla porta, finché il ragazzino dice:

-Pensavamo che era morta
-Sono viva
-Peccato”

Controllo la bibliografia, questo è il quinto volume di un progetto coerente e meticoloso, una Ricerca del tempo perduto degli ebrei polacchi e a contare gli anni di ricerca direi che è evidentemente il progetto di una vita.

In particolare questo mi sembra che sia il suo libro più bello, appena finito mi sono commossa, emozionata e come riempita di una densa e corposa riconoscenza. Mentre lo leggevo ho raccontato a più persone le biografie di cui parla, ho seguito le tracce di queste persone, sono andata a cercare le loro immagini perché li volevo vedere, le interviste sul sito della USC Shoah Foundation, perché li volevo sentire e ho poi cercato altri libri, articoli (stupendo il racconto “Chance and Order” di Stanisław Lem dal New Yorker del 30.01.1984). I dettagli delle storie che lei racconta mi hanno confermato grandi riconoscenze (Maria Janion), serrate e incistite antipatie (Gustav Herling Grudzinski), commozioni e dolcezze che provavo ma poi non sapevo nemmeno bene perché (Stanisław Lem, sempre lui) e mi hanno insegnato molte cose che proprio non conoscevo (troppe, da chiudere in parentesi).

Ma che “questo è il suo più bello” me lo dico ogni volta che leggo un suo libro, perché Anna Bikont riesce a farsi domande semplici, quasi ovvie, che però diventano quel grimaldello di comprensione che apre le porte dentro la testa e a ogni volume, a ogni ricerca, aggiunge una chiave al portachiavi di cosa è successo e quindi chi erano, chi sono, chi sono stati gli ebrei polacchi. Altro che Proust! 

 Questo libro è diviso in quattro capitoli, che sono le quattro azioni possibili: Rimanere – Partire – Fare i conti e Ricordare, quasi 70 sono le pagine fitte fitte di bibliografia, nomi e note, quasi cinquanta le interviste citate, gli anni di ricerca che stanno dietro a un volume simile, invece, be’, difficile farne il conto. 

Rimanere, perché qualcuno deve pur fare la guardia alle ceneri, alla memoria, oppure rimanere per costruire da zero un paese che sarà nuovo, o per far rinascere quel mondo proprio dalle ceneri e non darla vinta a chi ha cercato di cancellarlo. Oppur partire, per rinascere altrove, magari in America, il paese delle possibilità, o in Italia, al sole del paese dei limoni, oppure in Israele, perché Israele esiste, sta per esistere, e allora basta vivere nel pericolo della minoranza, basta essere riconosciuti come quelli che non appartengono, basta sottostare alle regole di altri, che non ci vogliono. Peraltro in Polonia nei primissimi anni del dopoguerra sono stati ammazzati più di un migliaio di ebrei sopravvissuti, perché la guerra era finita, sì, ma non l’esperienza della violenza, quella no. Gli ebrei venivano cercati sui treni e lanciati fuori, mentre il treno correva, sono stati attaccati asili di bambini orfani, scuole dove si erano radunati ebrei sopravvissuti, perché fosse chiaro che lì, gli ebrei, non ce li volevano. A Kielce, a Cracovia, a Zakopane, per citare i casi dei pogrom più noti, ma si farebbe forse prima a nominare i posti dove non ci sono stati casi simili. E allora, se anche lasciare tutto e partire faceva paura, di fronte alla violenza uno cambia idea in fretta. 

Oppure no, oppure c’è chi comunque sia rimane, come Jerzy Cyns, che aveva cinque anni quando il ghetto di Cracovia fu liquidato e finì prima al campo di Płaszów, poi a Auschwitz, a Gross-Rosen e poi ancora a Auschwitz, dove il numero gli fu tatuato sul braccio per la terza volta, perché le prime due non era venuto bene. Non ricorda molto però del periodo del campo perché fu usato come cavia per gli esperimenti, ricorda solo che gli facevano delle iniezioni e perdeva conoscenza. Dopo la liberazione finì in un orfanotrofio per bambini ebrei a Cracovia, poi a Rabka, un altro orfanotrofio, ma per bambini malati. Un ospedale. Per un qualche miracolo della storia anche i suoi genitori erano sopravvissuti, la madre a Ravensbrück e a Buchenwald, il padre a Mauthausen. Jerzy era molto cagionevole di salute e per questo, nell’estate del ’47, i suoi genitori lo portarono di nuovo all’ospedale di Rabka, con loro andarono anche gli zii e il loro bambino, nato da poco.

Furono uccisi tutti il 9 agosto, per mano di una banda di ex partigiani nazionalisti che irruppero nella loro stanza. La zia fu uccisa insieme al figlio, che teneva in braccio, lo zio nella stanza, la mamma di Jerzy invece l’ammazzarono sparandole alle spalle, mentre cercava di scappare dalla finestra, probabilmente perché voleva che la seguissero, che le corressero dietro, che lasciassero la stanza dove c’era suo figlio, nascosto sotto il letto, che sopravvisse.

Nei capitoli Ricordare, Bikont racconta la storia di Józef Wulf, una figura gigantesca della storiografia ebraica, un uomo che ha dedicato ogni giorno della sua vita a ricordare, catalogare, scrivere quello che invece proprio in quegli anni si cercava di dimenticare, di cancellare, di non sapere. Finché poco prima di suicidarsi, nel 1974, dopo anni che ormai vive in Germania, scrive al figlio una lettera dove esprime la sua definitiva delusione: non riesce più a vivere nello stesso mondo dove quei criminali girano in libertà, abitano le loro casette e coltivano i fiori. Del resto quello stesso figlio, quando nei primi anni del dopoguerra ancora abitavano a Cracovia smise di essere picchiato e malmenato dai compagni di scuola soltanto dopo aver cambiato il suo nome, Dawid, con un bel Tadeusz polacco. 

In questo sussultare continuo di violenza, di persone incontrate, perdute, di vite che sono un balenare in tempesta e paesi da raggiungere, o da dimenticare, Bikont ci accompagna, ci racconta, e grazie al cielo lo fa descrivendo con il suo sguardo che è un distillato di umanità, una sorta di empatica bellissima gentilezza che funziona come un antidoto alle continue clamorose ingiustizie della storia e illumina di umanità un contesto che di suo sarebbe solo molto buio.

Una famiglia si nasconde, ma tra di loro c’è una bambina piccola che piange, allora la mamma pensa di darla ai vicini di casa, lo fa per salvare lei e anche gli altri e lo fa perché si fida, solo che poi nessuno le dirà come sta la bambina, che fa, le notizie si diraderanno, suoneranno di bugia. La verità è che quei vicini l’hanno subito venduta ai tedeschi e la bambina è morta, ma del resto anche la madre muore. Ma questa è la sorte di chi ha fatto davvero la Storia, anche se è una storia non scritta, perché come sono andate davvero le cose a chi è stato ammazzato non lo sappiamo, almeno non possiamo saperlo davvero e infatti la storia della mamma e della bimba è un fatto collaterale, lo si racconta, lo si ricorda, ma sono pedine perse. 

Anna Bikont invece ne scrive, ne parla con la sorella di quella mamma, che era con loro, e invece è sopravvissuta e insieme al figlio. Le dice “Anche a me avevano consigliato di dare via mio figlio, ma io dissi: Quello che succede a me, succede anche a lui. Del resto lui mi ha aiutato a sopravvivere e io ho aiutato lui (…). Mio figlio era un bambino molto bravo, sapeva che non doveva parlare a voce alta, non doveva piangere, che doveva stare tranquillo”. Molto forte la memoria della mamma, tanto che quel bambino sembra di vederlo, di sentirlo tranquillo tra le braccia, e poi arriva la voce di Bikont: “Peraltro questa è una caratteristica ben evidente in Roald anche oggi. Dopo tanti anni, è ancora un uomo tranquillo, gentile, affettuoso, dalla voce tranquilla, gentile, affettuosa.”

Il Roald bambino di cui parla e che vediamo nitidamente è il Roald adulto che Bikont ha incontrato negli Stati Uniti molti anni dopo che erano partiti dalla Polonia: Roald Hoffman, Premio Nobel per la chimica nel 1981, uno degli eroi di cui parla. 

Eroe, che brutta parola, direbbe Marek Edelman, gli eroi sono quelli finiti nelle camere a gas, non chi ce l’ha fatta, ma come altro definire chi è riuscito a sopravvivere allo sterminio, rialzarsi, inventarsi una vita nuova e viverla. Che poi sia riuscito a emigrare e sia finito a fare il parrucchiere a Haifa, o abbia invece preferito rimanere in Polonia e magari abbia cambiato nome e sia diventato un buon cristiano, o un buon comunista, o abbia vinto un Nobel, poco cambia, eroi rimangono. 

E tanto hanno di eroismo le loro biografie che mentre leggevo di loro mi chiedevo se non fossero storie della Marvel in prosa. Mi sono immaginata più volte uno Stan Lee in miniatura seduto sul cassettone di camera mia che annuiva in silenzio mentre seguivo le loro avventure, come a dire, “no, io non ho inventato granché”.

Una di queste è Irena Gelblum, c’è un libro che ho sulla scrivania, e mi aspetta, si chiama “Le tre vite di Irena Gelblum”, ma il titolo è indicativo, perché le vite di Gelblum sono forse cinque, sei. Un po’ come se avesse deciso di provarle tutte e erano vite che indossava come abiti, presi da un guardaroba, magari neanche suo. Del resto lo stesso Edelman, che mi piace tanto citare perché ha detto sempre e solo cose molto intelligenti, non solo la stimava, ma ogni volta che ne parlava si accendeva con una luce di deferenza di fronte al coraggio, al genio, alla forza sfrontata di questa donna tanto che “con la sua vita durante e dopo la guerra si potrebbe scrivere un romanzo d’avventura”, diceva. E come dargli torto. 

Nasce a Varsavia in una famiglia di ebrei ricchi nel 1923, o forse nel ‘25, nel ’31. No, quando non si sa con esattezza, perché le sue date di nascita si mescolano, così come anche i suoi nomi si mescoleranno, Irena Weinberg, o Waniewicz, Gelblum, Conti, o Conti di Mauro, quando vivrà una delle sue vite da italiana. Durante la guerra vive fuori dal ghetto, cammina sicura per le strade e non ha paura dei tedeschi, ha un ruolo centrale nella resistenza ebraica di Varsavia, fa circolare armi, informazioni, oggetti. Dopo la guerra sarà una delle menti dei Vendicatori (gli Avengers di Stan Lee?) insieme a Abba Kovno, e nel silenzio della mia cameretta quando penso a loro due si alza la voce di Daniel Kahn in un coro di “Six Million Germans!” Pure le pareti mi cantano dei loro progetti di vendetta. Che però, per fortuna, non avranno successo e allora lei da Israele ritorna in Polonia e cambia pelle. Cambia nome, cambia religione, cambia identità e vive di nuovo, da zero, con una di quelle vite che indossa come un abito, come un’occasione. 

Peccato che Stan Lee non le abbia dedicato un personaggio, ma per fortuna Anna Bikont ce ne parla. 

ANNA BIKONT, Non una fine, non un inizio. Le sorti postbelliche degli ebrei polacchi, Wydawnictwo Czarne, 2025

Irene Salvatori

Irene Salvatori, scrittrice, traduttrice e poetessa.

Irene Salvatori è nata a Forte dei Marmi (LU) nel 1978, ha studiato a Cracovia e vissuto a Berlino, si è laureata a Pisa in Storia Contemporanea, ma traduce letteratura dal polacco e dal tedesco, oltre a scrivere poesie. 

 

Anna Bikont alla ricerca degli ebrei perduti

 

RIFLETTIAMO…

È quasi impossibile rimanere indifferenti alla barbarie che sta accadendo ai civili palestinesi di Gaza dopo i crimini efferati del 7 ottobre… ma a causa di una forte recrudescenza di sentimenti antisemiti nel mondo è opportuno, se non doveroso, fare alcune precisazioni…

1) In ISRAELE, GLI EBREI rappresentano il 73% della popolazione, GLI ARABI il 21%, e altre MINORANZE il 6%.

✏️QUINDI GLI ISRAELIANI NON SONO TUTTI EBREI.

2) ISRAELIANI e ISRAELITI.

GLI ISRAELIANI sono coloro che appartengono allo Stato di Israele; 

Il termine ISRAELITI, invece, indica il popolo ebraico e/o i seguaci dell’ebraismo.

3) SIONISTI E ANTISIONISTI.

Il SIONISMO è un’ideologia politica del XIX secolo secondo la quale la sicurezza ebraica richiedeva uno stato-nazione che fosse solo ebraico. 

GLI ANTISIONISTI sono coloro che si oppongono a questa ideologia… 

Tra questi ci sono anche tanti, ma tanti tanti tanti EBREI… Giusto per citarne qualcuno: Albert Einstein, Hannah Arendt e Marek Edelman (vice comandante della Rivolta del Ghetto di Varsavia). 

✏️QUINDI ESSERE EBREI NON SIGNIFICA OBBLIGATORIAMENTE ESSERE SIONISTA…

3) NON TUTTI I SIONISTI HANNO VOTATO PER NETANYAHU.

In Israele, nel novembre del 2022 la coalizione di destra, supportata anche dalla formazione estremista Sionismo Religioso di Ben Gvir, si prende 65 seggi alla Knesset, mentre quella più moderata e dichiaratamente anti-Netanyahu si ferma a 60 sui 120 totali (Il Fatto Quotidiano).

In Israele ci sono tanti SIONISTI che sono all’opposizione, e tanti SIONISTI che protestano da mesi contro la politica assassina di Netanyahu e per la fine della guerra nella Striscia di Gaza.

✏️QUINDI ESSERE SIONISTA NON SIGNIFICA ESSERE A FAVORE DEL MASSACRO NELLA STRISCIA. 

4) ALLE ELEMENTARI MI HANNO INSEGNATO CHE:

Esiste l’ebreo buono e l’ebreo cattivo…

Il palestinese buono e il palestinese cattivo;

il napoletano buono e il napoletano cattivo;

il milanese buono e il milanese cattivo…

Il russo buono e il russo cattivo…

l’ucraino buono e l’ucraino cattivo… 

✏️QUINDI Facciamo attenzione (ma tanta tanta) a non generalizzare, a non dare etichette, a non alimentare questo crescente odio antisemita nel mondo che nulla ha a che vedere col governo Netanyahu e il suo seguito…

PEACE 🇵🇸 🇮🇱 🕊️

 

GLI EROI DEL GHETTO DI VARSAVIA (TRILOGIA)

Gli Eroi del ghetto di Varsavia

Una potente trilogia teatrale che esplora le storie eroiche del Ghetto di Varsavia durante la Shoah. Roberto Giordano presenta tre opere drammatiche intense che narrano il coraggio e la resistenza umana in uno dei periodi più bui della storia. Il volume include il racconto di Irena Sendler, la ‘terza madre’ del ghetto, la commovente storia di Janusz Korczak e il suo ultimo viaggio verso Treblinka, e la drammatica insurrezione del ghetto. Attraverso una sapiente rivisitazione drammaturgica, l’autore intreccia microstorie umane significative che illuminano la resistenza morale e fisica contro l’oppressione. Pubblicato da La Mongolfiera Editrice, questo libro unisce per la prima volta tre drammi di cui uno inedito, offrendo una testimonianza preziosa della memoria storica attraverso il potere del teatro. Un’opera fondamentale per comprendere gli atti di coraggio e umanità durante uno dei capitoli più tragici del XX secolo.

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GLI EROI DEL GHETTO DI VARSAVIA

Roberto Giordano
La prima trilogia sul ghetto di Varsavia.

Il cerchio che si chiude, il sogno che si avvera!

Un contesto storico che inizia il 1° settembre 1939 (con l’invasione della Polonia) e si conclude il 16 maggio 1943 (con la fine della Rivolta e la distruzione del Ghetto).

Ringrazio di cuore:

– la prof.ssa Suzana Glavaš (Curatrice del libro);

– il prof. Leszek Kazana (Prefazione)

– Giovanni Spedicati (La Mongolfiera Editrice)

– Ambasciata Polacca di Roma (Patrocinio)

– Consolato Onorario della Repubblica di Polonia – Napoli (Patrocinio) 

Inizia un nuovo cammino…

Un libro in Memoria dei “Sommersi e Salvati”. Che la loro sofferenza sia di monito e insegnamento per tutta l’umanità. Oggi più di ieri…

Grazie di cuore a tutti! ❤️

PERCHE’ CELEBRARE LA SHOAH?

ph©Pino Miraglia

Dopo i crimini efferati commessi il 7 ottobre scorso dai terroristi di Hamas, e che hanno scosso il mondo intero, è stata evocata addirittura la Shoah… Stupri, violenze, sevizie, decapitazioni, uccisioni di bambini dinanzi ai genitori, ai nonni, la caccia all’ebreo… Tutto ciò ha comportato la reazione di Israele che ha provocato una guerra incredibile con circa 25.000 civili.

La Comunità ebraica si è posta una domanda:”E’ giusto celebrare la Shoah dopo i fatti del 7 ottobre? E’ giusto celebrare i morti della Shoah e dimenticare quelli del 7 ottobre?

Ecco, la Shoah va celebrata per due motivi molto importanti: Il primo, è la verità storica. La Shoah c’è stata, è esistita. Il genocidio è stato pianificato a tavolino, con campi di sterminio, camere a gas, forni crematori. Questa verità storica è importante per evitare ogni distorsione della Shoah, come: negazionismi, banalizzazioni, ridicolizzazioni. Il secondo motivo è la Memoria. La Memoria è un forte argine all’antisemitismo, al razzismo, alla violazione dei diritti umani, oggi più che mai!

Temi come la questione Medio-Orientale, il conflitto tra Israele e Palestina, vanno studiati e approfonditi non solo negli Istituti Scolastici ma anche nelle Istituzione Politiche.  Spesso siamo portati a schierarci pro uno o pro un’altra parte come se fossimo allo stadio… Questi, sono temi molto importanti e contorti che pur studiando bene il passato, ci si accorge che tutto ciò può essere arginato solo attraverso il buon senso, con coscienza, e trattati di pace.

Anziché alzare muri, chiudere le frontiere,  apriamoci al prossimo, siamo più solidali con chi soffre, con chi scappa dalle guerre, con chi vive in miseria … Tendiamo la mano a chi sta affogando, come ci insegna la nostra eroina Irena Sendler.

Solo attraverso l’amore il mondo rinascerà.

(Per approfondimenti v. art. di Milena Santerini apparso su Repubblica il 3/1/24)

UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI E DEI POLACCHI DI PUGLIA

L’attore Roberto Giordano e il magistero di Irena Sendler

Cari amici, abbiamo voluto intervistare questa settimana un grande amico della comunità Polacca e della Polonia: Roberto Giordano.

Roberto come mai un  attore di teatro, cinema e tv, nonché regista e appassionato della lingua napoletana scritta e orale ama come te, ama così tanto la Polonia?

“Non è semplice spiegarlo. A volte capita di non riuscire ad esprimere con le parole sentimenti così  forti. Forse, qualcosa o qualcuno, ha voluto che fosse così… La Polonia ormai è parte di me. È nel mio cuore.”


Come nasce il libro “Irena Sendler. La terza madre del ghetto di Varsavia”?

“Il libro è nato grazie a un’idea della prof.ssa Suzana Glavaš, scrittrice e poetessa di origine croata, nonché figlia di sopravvissuta alla Shoah.

Nel 2015, dopo aver letto il mio testo drammaturgico, rimase fortemente colpita dal magistero di Irena Sendler, tanto da prodigarsi prontamente affinchè lo scritto, “documento inedito e importante”, fosse divulgato anche alla platea dei lettori. E grazie alla Casa Editrice La Mongolfiera, di Giovanni Spedicati, tutto ciò è avvenuto.

Il volume, Patrocinato tra l’altro  da Amnesty International, dall’Ambasciata Polacca in Roma, dal Consolato Onorario della Repubblica di Polonia in Napoli, e dal Comune di Napoli, ha avuto una sua seconda edizione con la casa editrice Nuvole di Ardesia, di Vincenzo Ambrosanio.”

Il tuo libro “Irena Sendler. La terza madre del ghetto di Varsavia” è diventato un vero e proprio progetto teatrale che ti ha permesso di rappresentare questo spettacolo in numerose città italiane e polacche. Il tuo spettacolo è stato rappresentato  anche a Varsavia, riscuotendo grande successo. Come spieghi tutto questo interesse?

“Per essere precisi c’è stato prima il debutto teatrale e poi la pubblicazione del libro.
La prima rappresentazione è avvenuta a Napoli, nel gennaio 2016, presso il Succorpo dell’Annunziata, in occasione della Giornata della Memoria. Lo spettacolo fu Promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, grazie alla volontà dell’allora Assessore Nino Daniele. È stato molto emozionante, la realizzazione di un sogno che ancora oggi continua… Tutt’ora ci sono persone che mi ringraziano per avergli fatto conoscere questa storia incredibile e ci sono studenti che mi contattano per avere consigli sulle loro tesine incentrate sull’eroina polacca…

È uno spettacolo che ho voluto fortemente! Ho rifiutato una scrittura importante e mi sono indebitato pur di portarla in sçena e regalarla al pubblico nostrano.
E’ dal 12 maggio 2008 che Irena è parte di me. La sua scoperta è stato un dolce risveglio… Dopo la scomparsa di mia madre nel novembre 2012,  non ero per niente messo bene. Il dolore della perdita di una persona cara, come ben sappiamo, segna tanto… Poi e’ successo l’impensabile… Qualcuno da lassù ha voluto così. Forse mia madre, forse Irena ha voluto prendermi per mano e accompagnarmi in questa magnifica avventura, che mi ha fatto crescere, mi ha fatto diventare una persona migliore, facendomi capire il mio senso della vita, la mia missione…

Spesso si tende a raccontare il male che è stato compiuto e non il bene che è stato fatto. La storia di Irena Sendler entra nel cuore dello spettatore appunto per questo. Abbiamo bisogno di ascoltare messaggi come il suo, di bontà, di altruismo. Abbiamo bisogna di ascoltare storie di solidarietà, di umanità,  storie che ci raccontano di porgere la mano a chi è in difficoltà,  chiunque esso sia, ebreo, sinti, rom,  profugo, immigrato, diverso… E la storia di Irena Sendler racconta tutto ciò.”

Qual è il ricordo più bello che conservi, legato al progetto di “Irena Sendler”?

“Difficile sceglierne uno… il debutto, il libro, gli studenti, l’Ambasciata Polacca di Roma, i professori, le lacrime, i grazie, la Polonia, Varsavia, il Muro del Ghetto, i Giusti, Cracovia e… l’incontro con Elżbieta Ficowska (la bambina più piccola salvata da Irena Sendler), un’emozione indescrivibile! Un ricordo indelebile!  Così come sono indelebili le rappresentazioni avvenute in Polonia nel giugno del 2018, in occasione del 10° anniversario dalla morte di Irena. Ricordo che a Varsavia, dopo il “chi è di scena”, abbiamo dovuto posticipare lo spettacolo di una decina di minuti per la commozione di due attrici, dovuta all’incontro con i sopravvissuti, un attimo prima di entrare in scena… Vi lascio immaginare quei momenti…

Inoltre, la presenza della giornalista Anna Mieszkowska (alla quale va tutta la mia gratitudine per aver pubblicato nel suo libro NOME IN CODICE JOLANTA, una lunga intervista ad Irena Sendler), mi ha reso tanto felice. Così come la presenza di Hanna Rechowicz (figlia di Jadwiga Piotrowska) e dell’adorabile Elżbieta, ha fatto sì che la serata fosse davvero speciale.

Allo stesso modo è stato emozionante la presentazione del libro (sempre a Varsavia) presso l’Istituto Italiano di Cultura, alla presenza del prof. Leszek Kazana (italianista), che ha voluto tradurre il mio libro in lingua polacca. Ricordo come se fosse ieri le sue parole:”Un italiano che scrive un testo drammaturgico su una nostra eroina, deve essere premiato. Posso avere l’onore di tradurre il tuo libro in lingua polacca?” Ancora oggi faccio fatica a credere che tutto ciò sia potuto accadere… Sono molto orgoglioso di essere diventato suo amico!”

Hai recentemente messo in scena la figura di Janusz Korczak con lo spettacolo “Janusz Korczak – L’ultima Strada per Treblinka”. Cosa ti ha spinto a scrivere,  dirigere e rappresentare come attore questa opera teatrale?


“Janusz Korczak è un altro “eroe” polacco che abbiamo il dovere di ricordare. I suoi libri andrebbero letti da tutti gli educatori, tutti gli insegnanti, tutti i genitori!

Se desideriamo avere un mondo migliore, cominciamo a rispettare  i bambini per quelli che sono!… Rispettiamo i loro errori, le loro debolezze, i loro pianti, i loro desideri, senza imporre loro, con la nostra forza, con la nostra arroganza, con il nostro potere, le nostre volontà.

Korczak, precursore della Carta Internazionale dell’Onu sui diritti del fanciullo, ci insegna che il bambino ha il diritto di sbagliare, senza essere giudicato, senza essere punito. Ci invita a chinarci alla loro altezza, ad ascoltarli, senza imbavagliarli, senza mettergli il guinzaglio. Ed io non potevo non raccontare una figura così tenera e umana. Non potevo non raccontare colui che prima di essere deportato con “i suoi ragazzi”, per essere gasato nel campo di sterminio di Treblinka, gli fu data la possibilità di salvarsi, ma rifiutò perché non volle lasciarli soli…”

Direi che non è per niente un periodo di riflessione per alcuni… Quando sento dire che siamo in “guerra”, rabbrividisco! E’ difficile accettare questo tipo di esternazione. Andiamolo a raccontare ai profughi siriani o a quelli afgani o ai somali, che siamo in guerra… Andiamolo a dire alle famiglie di coloro che sono morti in mare mentre noi ci “abbuffiamo” dinanzi a un pranzo luculliano, osservando queste tragedie stando seduti a tavola o stesi sul nostro bel divano… non facciamo alcun accostamento per favore!…


Roberto, anche se questo periodo legato all’emergenza sanitaria non aiuta sicuramente le compagnie teatrali nel mettere in scena le loro opere, conoscendoti starai sicuramente pensando e lavorando ad un nuovo progetto, puoi darcene una anticipazione?

Per quanto riguarda i nuovi progetti, ho da poco finito si scrivere un testo drammaturgico su Oskar Groening (Il Contabile di Auschwitz), ma sento di essere quasi pronto per scrivere il terzo, e forse ultimo, scritto sul Ghetto di Varsavia, con la speranza che ci possa essere in futuro la pubblicazione della raccolta di questi quattro testi.
Poi con Federica Aiello (mia moglie!) continueremo a rappresentare i nostri spettacoli di tradizione: TOTO’ che padre! e L’ARTE DEL SORRISO La Macchietta.
Infine spero quanto prima di ritornare in scena con TARTASSATI DALLE TASSE (di Eduardo Tartaglia) con Biagio Izzo, spettacolo che abbiamo dovuto interrompere a marzo, causa Covid…

E Dulcis in fundo, a fine gennaio , andrà in onda su Rai Uno la serie tv IL COMMISSARIO RICCIARDI (con Lino Guanciale), per la regia di A. D’Alatri, tratto dai romanzi di Maurizio De Giovanni. Io interpretero’ il ruolo del poliziotto Camarda.

Ora Voglio confidarvi due miei sogni. Il primo: ritornare in Polonia per replicare lo spettacolo e rivedere i miei cari amici! Il secondo: replicarlo anche in Israele!…

Prima di congedarci, vorrei chiederti di rivolgere un saluto all”Unione delle Associazioni e dei Polacchi di Puglia” e all’intera comunità polacca che ti segue sempre con affetto.

“Saluto con tanto affetto i miei amici dell’Unione delle Associazioni e dei Polacchi di Puglia sperando di vedervi quanto prima! Un abbraccio forte a tutti voi! Vi lascio con il messaggio della nostra cara:”Dobbiamo lottare per ciò che è buono. Il buono deve prevalere ed io ci credo. Finché vivrò, finché avrò forza, professero’ che la cosa più importante è la bontà.”

Ringraziamo l’amico ed attore Roberto Giordano, certi che saprà realizzare tutti i suoi sogni e che presto potremo  riabbracciarlo e rivederlo sul palcoscenico. Ad maiora semper caro Roberto!

ELZBIETA FICOWSKA IN ITALIA!


 

 

Con gioia e commozione comunichiamo che Elżbieta Ficowska, la bambina più piccola salvata da Irena Sendler e dai suoi collaboratori (sopravvissuta al Ghetto di Varsavia), testimonierà in Italia in occasione delle Celebrazioni per la Giornata della Memoria 2020!

Una gioia immensa! Un evento intenso ed emozionante per noi italiani!

Un ringraziamento sentito va alla Dirigente Prof.ssa Antonella Maucioni, all’organizzazione no profit Gariwo – Il Giardino dei Giusti di Milano, all’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli e all’Assessorato alle Politiche Scolastiche del Comune di Fiumicino, che tanto si sono prodigati affinché tutto ciò accadesse.

Quando l’unione fa la forza! 

A seguire tutti gli eventi:

21 gennaio – CICCIANO (Na): presentazione del libro (e incontro/dibattito) presso l’Istituto Scolastico G.Pascoli.

23 gennaio – CICCIANO (Na): doppio spettacolo IRENA SENDLER La Terza Madre del Ghetto di Varsavia, presso l’Istituto Scolastico G.Pascoli.

24 gennaio – NAPOLI: spettacolo IRENA SENDLER La Terza Madre del Ghetto di Varsavia, presso la SALA ANNALISA DURANTE.
A seguire testimonianza di ELZBIETA FICOWSKA.

27 gennaio – FIUMICINO: spettacolo IRENA SENDLER La Terza Madre del Ghetto di Varsavia, presso la TENSOSTRUTTURA.
A seguire testimonianza di ELZBIETA FICOWSKA.

27 gennaio – ROMA, ore 18: Testimonianza di Elzbieta Ficowska presso l’AMBASCIATA POLACCA.

28 gennaio – FIUMICINO: spettacolo IRENA SENDLER La Terza Madre del Ghetto di Varsavia, presso la TENSOSTRUTTURA.
A seguire testimonianza di ELZBIETA FICOWSKA.

29 gennaio – MILANO: testimonianza di ELZBIETA FICOWSKA presso GARIWO – IL GIARDINO DEI GIUSTI.

Un ulteriore e sentito ringraziamento a Malgosia Pisarkiewicz, all’Associazione Acaip (Somma Vesuviana) e alla Dirigente Mariarosaria Caiazzo.

 

IO C’ERO…

Io c’ero, ho visto, sono tornata a casa e non riesco ancora ad acquietarmi…

Ottimo spettacolo, non fingono, sono lì nel ghetto e vivono ogni scena. Sta accadendo tutto veramente… Le lacrime degli attori a fine spettacolo sono reali.

Questi giovani italiani piangono, ora, dopo tanti anni, la tragedia della guerra, degli ebrei. 
Lo ricordano al mondo, salvano il ricordo di quelli che nessuno ricorda spesso…

E’ una nuova generazione di Giusti tra le Nazioni. Salvando la loro memoria, mettono in guardia il mondo dall’indifferenza, ai danni dell’altro, del prossimo… diffondendo “il bene” di Irena Sendler. 

Solo attraverso l’amore il mondo si salverà. Questo spettacolo ce lo ricorda. 

Grazie ai miei amici italiani per l’emozione vissuta e per esistere. 

Elzbieta Ficowska (Varsavia, 14 giugno 2018)

 

 

 

 

 

 

 

 

UN GIORNO SPECIALE

Ricordo che era il 28 luglio 2015, giorno del mio compleanno, quando decisi definitivamente di portare in scena l’immenso magistero di Irena Sendler.

Ricordo che nel 2016 l’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli appoggio’ con entusiasmo il progetto, promuovendo lo spettacolo.

Ricordo l’emozione della prima, e il messaggio inviatomi da Elżbieta Ficowska e dalla figlia di Irena Sendler.

Ricordo la prof.ssa Suzana Glavas quando volle fortemente la pubblicazione del testo drammaturgico, che ha meritato poi, per interesse culturale, il Patrocinio di Amnesty International, del Comune di Napoli, dell’Ambasciata Polacca in Roma e del Consolato Onorario della Repubblica di Polonia in Napoli.

Ricordo tutte le presentazioni fatte, tutte le repliche rappresentate: dal Succorpo dell’Annunziata a Roma, dalla Biblioteca dell’Attore di Genova a Sorrento, da Bari ad Ancona, da Napoli alle Marche, e la Polonia…

Ieri, invece, sono stato a Campagna (SA) con la mia famiglia presso il Museo Palatucci, dove è stato piantato un albero in Memoria di Irena Sendler, in occasione della Giornata dei Giusti, e scoperto una targa per ricordarla.

Elzbieta Ficowska, questo è un altro incredibile giorno che ricorderò, e che resterà per sempre nel mio cuore.

“Auguro a tutti gli uomini del mondo, che sono cari al mio cuore, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dalla provenienza, che in tutte le loro azioni si ricordino della dignità dell’altro, delle sue sofferenze e necessità, cercando sempre la via della comprensione reciproca e dell’accordo. Che il bene trionfi!” – Irena Sendler

Roberto Giordano

Un doveroso ringraziamento al caro Michele Aiello, a Marcello Naimoli, al Museo Palatucci, all’Amministrazione Comunale, al Sindaco Roberto Monaco, alla Dirigente Antonella Maucioni, alla Prof.ssa Titti Gibboni per l’organizzazione di questa magnifica mattinata.

HO SCOPERTO CHE I SOGNI SI REALIZZANO

Ho sognato di rappresentare un giorno uno spettacolo su Irena Sendler e i suoi collaboratori.

Ho sognato di girare l’Italia per diffondere il suo immenso operato e il suo messaggio di bontà.

Ho sognato di incontrare Elżbieta Ficowska, la bambina più piccola salvata da Irena Sendler, e poterla abbracciare forte e darle un bacio pieno d’amore.

Ho sognato di entrare in casa di Jadwiga Piotrowska (e Hanna Rechowicz), dove furono nascosti numerosi bambini ebrei, e vedere l’albero nel giardino in cui fu seppellito l’archivio con i nomi dei bambini salvati.

Ho sognato di camminare su quel suolo calpestato dai Giusti.

Ho sognato di rendere un mio piccolo omaggio a tutti quei bambini che non ce l’hanno fatta. A coloro che è stata tolta la vita in maniera incomprensibile e inconcepibile, solo perché ebrei, rom, sinti…

Ho sognato di rendere un mio piccolo omaggio ai bambini sopravvissuti alla Shoah, perché grazie alla loro testimonianza sono una persona migliore, più umana.

Ho sognato di rendere un mio piccolo omaggio alle staffette e a tutte quelle persone che hanno messo a rischio la propria vita e quella dei propri familiari, pur di salvarne una sola…

Ho sognato di ritornare in Polonia, per rappresentare lo spettacolo su Irena Sendler, con mia moglie Federica, mia figlia Greta, e la compagnia tutta, dinanzi a Bieta Ficowska, Hanna Rechowicz, Leszek Kazana, Anna Mieszowska, Renata Machulec e a tutti voi…

E ho sognato di sognare che i miei desideri si potessero realizzare.

E stasera sono qui…

Sono qui per dirvi di credere nei vostri sogni!

Che la bontà trionfi sempre!

La compagnia teatrale con Elzbieta Ficowska, Anna Mieszkowska, Hanna Rechowicz, Roberto Cincotta (Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia), Leszek Kazana, Renata Machulec, Malgosia Pisarkiewicz.

Cracovia, teatro Groteska. La compagnia teatrale con la traduttrice Magda Wrana. Evento organizzato dal Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia Dott.Ugo Rufino, in occasione del decennale della morte di Irena Sendler.