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Periscopio – La madre del ghetto

Ho avuto occasione, nel mio intervento settimanale dello scorso 17 febbraio, di parlare della straordinaria figura di Irena Sendler (nata a Varsavia nel 1910, e ivi scomparsa nel 2008), a cui è stata dedicata una toccante rappresentazione teatrale, dal titolo “Irena Sendler: La Terza Madre del Ghetto di Varsavia” (ideato e scritto da Roberto Giordano, col Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, con la consulenza alle ricerche storiche di Suzana Glavas), che ha vivamente commosso tutti coloro che hanno finora avuto il privilegio di assistervi, e che speriamo possa ancora essere apprezzata da un numero sempre crescente di spettatori. È con vivo compiacimento, pertanto, che salutiamo l’iniziativa dell’Editrice la Mongolfiera di dare alle stampe il testo teatrale del lavoro di Roberto Giordano, in un libro – dallo stesso titolo della rappresentazione – che permetterà di conoscere la storia della Sendler a coloro che non abbiano avuto la possibilità di assistere allo spettacolo, così come darà a quelli che invece vi abbiano partecipato l’opportunità di riprovare, attraverso la lettura, in modo diverso, le emozioni suscitate dalla recita.
Per chi non conosca la vicenda della Sendler, ricordiamo che fu un’infermiera cattolica che, durante la Seconda Guerra mondiale, nella Varsavia occupata dai nazisti, contravvenendo agli ordini delle autorità occupanti, continuò a dare protezione, cura e assistenza a migliaia di ebrei, riuscendo a salvarne moltissimi – almeno 2500 – dalla morte. Fu chiamata “la terza madre”, perché molti bambini ebrei, avendo perso la madre naturale (la “prima madre”), uccisa dai tedeschi, furono da lei affidati, con falsi documenti e con nomi cristiani, alle cure di donne polacche di buoni sentimenti (“seconde madri”). La Sendler (“terza madre”) salvò così la vita a numerosi bimbi, premurandosi anche di annotarne e custodirne, in segreto, i veri nomi, accanto a quelli falsi, nella speranza (che, in moti casi, andò esaudita) di poter un giorno fare ricongiungere i bambini con le loro famiglie. Torturata dai nazisti (le furono fratturate entrambe le gambe, e sarebbe rimasta menomata per tutta la vita), si rifiutò sempre di parlare, salvando così la vita dei suoi bambini. Finita la guerra, il suo operato è caduto nell’oblio (senza che lei facesse nulla per farlo conoscere o per ricevere alcun ringraziamento), ma è poi fortunatamente stato conosciuto e apprezzato, facendola eleggere dallo Yad Vashem, nel 1965, “Giusta tra le nazioni”, facendole attribuire numerosi riconoscimenti pubblici e facendo intitolare a suo nome diverse scuole, in Polonia e in Germania. Un libro, questo appena pubblicato, che contribuisce a dare onore a una grande donna, e per il quale vanno ringraziati l’autore e l’editore, insieme a Glavaš, che ha contribuito a valorizzarne la figura.
Aggiungo una piccola postilla.
Nel mio intervento del 17 febbraio, ricollegandomi alle parole del Console di Polonia, ho annotato come l’eroismo della “terza madre” abbia contribuito a riscattare, almeno un po’, l’onore del popolo polacco, così come, per esempio, una figura come Giorgio Perlasca può avere fatto per il popolo italiano. Quel che oggi vorrei aggiungere – rinnovando i complimenti a Giordano, alla Glavas e alla Casa editrice – è che persone come la Sendler e come Perlasca dovrebbero valere da monito contro ogni forma di generalizzazione volta a incriminare collettivamente tutti gli appartamenti a un dato popolo, o una data religione, secondo un meccanismo di colpevolizzazione eterna e collettiva che gli ebrei conoscono molto bene. “Se anche ci fosse un solo tedesco umano – scrisse Hetty Hillesum – non avremmo il diritto di riversare la nostra condanna sull’intero popolo tedesco”. Certo, dire che tutti i polacchi, tutti gli italiani e tutti i tedeschi vengano collettivamente assolti dall’azione della Sendler, di Perlasca o degli ufficiali che organizzarono l’attentato a Hitler sarebbe ovviamente una comoda scorciatoia. Ma cosa diremmo di qualcuno che usasse parole di disprezzo verso la “terza madre” per il suo essere stata polacca, o cattolica? Credo che un giudizio del genere non potrebbe non suscitare la più totale e immediata condanna. Eppure è proprio a qualcosa del genere che stiamo oggi assistendo – anche, purtroppo, da parte di persone amiche degli ebrei e di Israele – nei confronti degli islamici (ma non solo). Dilagano, sul web, frasi sinistre e ripugnanti, improntate a una logica squisitamente razzista. Sono cose assolutamente inaccettabili, che nessun amore per Israele, e nessuna sacrosanta esigenza di lotta contro la violenza e il terrorismo di matrice islamica potrà mai giustificare. Un esempio per tutti: l’elezione a sindaco di Londra del pakistano Sadiq Kahn, che ha scatenato in rete un’immediata ondata di insulti, nell’automatica convinzione che dovesse trattarsi di un estremista antioccidentale, filoterrorista e antisemita. Tutte cose lontanissime dalla realtà: concluse le elezioni per i sindaci delle nostre città, credo proprio che molti, oggi, potrebbero invidiare i cittadini londinesi. E non c’è stato nessuno, ma proprio nessuno, che, dopo averlo insultato, acquisita qualche maggiore informazione, abbia avuto l’onestà intellettuale di dire: “mi sono sbagliato, questo Kahn pare una persona per bene”. Evidentemente, un esercizio del genere non è ammissibile nell’eterna notte in cui stiamo vivendo, nella quale, com’è noto, tutte le vacche sono nere. Tutti i polacchi, compresa la Sendler, restano polacchi, così come tutti gli italiani, compreso Perlasca, e tutti i musulmani, compreso Kahn, restano quello che sono. È più facile, si fa prima, e non si sbaglia mai.

Francesco Lucrezi, storico

(22 giugno 2016)